I produttori italiani in difficoltà ad esportare nei paesi Bric a causa dell’articolato sistema normativo.
I gusti alimentari delle economie emergenti stanno cambiando rapidamente e il cibo made in Italy è ormai diventato per molti uno status. Le difficoltà per i produttori italiani a raggiungere questi paesi aumentano non sono però poche, anzi. Certificazioni, documenti di salubrità degli stabilimenti produttivi, etichettature obbligatori si sono, negli ultimi anni, moltiplicati. I principali ostacoli all’export sono i sistemi di autorizzazioni frammentari (federali, statali e municipali), le restrizioni sanitarie introdotte senza adeguato preavviso, gli alti tassi di corruzione interna e le carenze dei canali distributivi, spesso insufficienti a garantire appropriati livelli di conservazione e trasporto dei prodotti alimentari.
Caso esemplificativo, il Brasile. Qui servono dichiarazione doganale, fattura proforma e quella commerciale. Di quest’ultima ne servono 2-3-5 copie (a seconda delle fonti di riferimento), possibilmente in portoghese (in alternativa francese, spagnolo, inglese) che descrivano dettagliatamente la merce, il Paese di acquisizione e di origine. La mancanza di un testo di riferimento ufficiale e la presenza di zone franche come Manaus Amazonas in cui i requisiti possono variare, complica ulteriormente le operazione di esportazione. Complessa è poi la normativa sulle etichette, in particolare in riferimento al calcolo energetico dei valori nutrizionali, che non possono essere arrotondati. Ulteriori restrizioni per alcuni prodotti particolari, come i salumi, per cui è richiesto un processo di cottura o di stagionatura superiore ai 10 mesi, che, di fatto, solo il Prosciutto di Parma e il San Daniele riescono a rispettare.
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